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Il pianeta delle scimmie

Nel pianeta delle scimmie tutto fila liscio.
Le scimmie si tappano la bocca a comando.

Le scimmie alzano flambé al soffitto mentre un pezzo di gesso viene portato a spasso.

Le scimmie pregano a memoria, il loro cuore non sa dettare parole spontanee che arrivano all’eterno.

Le scimmie seguono rituali tribali millenari senza conoscerne il significato.

Le scimmie si vietano di godere dell’amore e ne fanno un peccato.

Le scimmie ripetono mantra insignificanti.

Le scimmie non cantano se non lamenti, quel Dio li vuole così, vecchi e tristi, l’allegria e peccato capitale quando si è alla sua presenza.

Le scimmie allontanano chi la pensa diversamente.
Le scimmie hanno un capo scimmia che non sbaglia mai anche quando sbaglia.

Quelle povere scimmie che scimmiottano gli umani.
Quelle scimmie che condannano il diverso.

Quelle scimmie pronte per l’inferno.

Le scimmie che se provi a spiegare le tue ragioni hanno dalla loro parte gli esempi di secoli di loro sbagli.

Le scimmie che si sono inventate il perdono per denaro, il sacramento per convenzione, l’obolo confuso con la carità.

La carità, quell’amore che le scimmie hanno ormai dimenticato.

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Resta sospeso a un filo

Resta sospeso a un filo, indiviso e intatto, l’insostenibile bisogno di serenità.

Vi ambisco come fonte che disseta, inguaribile chimera che si aggrappa a montagne di speranza ridotte in granelli dal martello pneumatico dell’ansia.

E’ un dolce andare a volte, quando per strada incontro briciole di umanità e sorprese inaspettate, piccole cose, schegge di carità, miracoli che non sono tali se guardati con occhio razionale, ma che lo divengono al confronto dell’abisso in cui precipito.

E’ merce rara la rilassatezza, diamante nero la letizia, evento sovrannaturale la felicità.

Discorsi che vanno per conto loro, anche se parlo di Dio alla gente, quando nel cuore si cela lo strazio per la ruota che non gira.

E Lui mi osserva, ne sono certo.

Il pianto a volte placa il disordine interiore, altre volte si arresta sul baratro delle ciglia e si ferma ad osservare il mondo.

Quanto dolore,

quanta tristezza.

quanta disperazione,

su questa terra che gira intorno al sole e mai intorno all’Uomo.

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Mio padre era un altro dannato.

Mio padre era un altro dannato, sempre a far di conto, con l’ansia che lo consumava e, troppo spesso, gli toglieva il sorriso.

Scherzava, giocava e dentro moriva.

Voleva un pezzo di terra, si era accontentato dei vasi al balcone, di pomodoro e basilico.

Io avevo i grembiuli nuovi, libri e quaderni, la scuola privata, uno zaino di cartone e panini a pranzo.

Ero l’ultimo della classe, di quelle classi che distinguono i “signori” e gli operai, i poveri e i ricchi.

Non sapevo di essere ricco più di loro, il mio soldo valeva il doppio, il sacrificio è moneta rara e ben più costosa di penne che aiutano a scrivere meglio. L’ho scoperto il giorno stesso che se ne andato.

Mio padre era un altro dannato caduto nell’inferno della vita, l’esistenza che offre poco o nulla, quella dei molti.

Aveva rughe in fronte e cinquantatre anni quando fu ridotto a larva, consumato nel corpo e nella mente, malattia senza speranza, giorni che contavano se stessi, una clessidra in cui la sabbia scorreva veloce, contro ogni legge di gravità. Fu come se la vita avesse posto un accento sulla sua ansia e messo un punto esclamativo alla sua fine.

Aveva voluto per me una vita migliore, non sono sicuro di averlo accontentato.

Sono certo, però, che a lui quel pezzo di terra che desiderava gli è stato donato.

Il mio lo devo ancora conquistare.

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