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Mio padre era un altro dannato.

Mio padre era un altro dannato, sempre a far di conto, con l’ansia che lo consumava e, troppo spesso, gli toglieva il sorriso.

Scherzava, giocava e dentro moriva.

Voleva un pezzo di terra, si era accontentato dei vasi al balcone, di pomodoro e basilico.

Io avevo i grembiuli nuovi, libri e quaderni, la scuola privata, uno zaino di cartone e panini a pranzo.

Ero l’ultimo della classe, di quelle classi che distinguono i “signori” e gli operai, i poveri e i ricchi.

Non sapevo di essere ricco più di loro, il mio soldo valeva il doppio, il sacrificio è moneta rara e ben più costosa di penne che aiutano a scrivere meglio. L’ho scoperto il giorno stesso che se ne andato.

Mio padre era un altro dannato caduto nell’inferno della vita, l’esistenza che offre poco o nulla, quella dei molti.

Aveva rughe in fronte e cinquantatre anni quando fu ridotto a larva, consumato nel corpo e nella mente, malattia senza speranza, giorni che contavano se stessi, una clessidra in cui la sabbia scorreva veloce, contro ogni legge di gravità. Fu come se la vita avesse posto un accento sulla sua ansia e messo un punto esclamativo alla sua fine.

Aveva voluto per me una vita migliore, non sono sicuro di averlo accontentato.

Sono certo, però, che a lui quel pezzo di terra che desiderava gli è stato donato.

Il mio lo devo ancora conquistare.

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